Uno dei primi provvedimenti portati a termine dal Governo Conte è stato la riforma emanata in campo del diritto del lavoro, ossia il d.l. n.87/2018, il c.d. “decreto dignità” intitolato “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese“, poi convertito nella legge n.96/2018, entrata in vigore il 12 agosto di quest’anno.
Nata in un clima di dilagante perplessità, caratterizzata da discussioni
parlamentari e mediatiche accese, la normativa va a ritoccare il d.lgs.
n.81/2015 e pone al centro dell’attenzione la disciplina dei contratti di lavoro a
tempo determinato, con l’intento di dichiarare guerra ai contratti a termine
rinnovati senza criterio e spingendo verso una crescente stabilità dei rapporti di
lavoro.
Infatti, l’enunciato della suddetta norma va prima di tutto a modificare la durata
dei contratti a tempo determinato, sui quali potrà essere apposto un termine non
superiore ai dodici mesi e a ridurre anche la durata complessiva dello stesso
contratto che passa da trentasei a ventiquattro mensilità, con la possibilità di
effettuare un massimo di quattro proroghe, così come descritto nel primo comma,
lett. A, numero 1, dell’articolo 1. Il contratto potrà però avere durata superiore
alle dodici mensilità previste (ma comunque senza superare le ventiquattro
mensilità), solo in presenza di particolari e tassative condizioni elencate sempre
dall’articolo 1, comma 1, lett. A, numero 1, del decreto legge n.87/2018:
«esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze
sostitutive di altri lavori; esigenze connesse a incrementi temporanei,
significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria».
Importante novità è poi il ritorno delle c.d. causali, ovvero quelle particolari
circostanze che dovranno essere indicate dagli imprenditori per giustificare
l’utilizzo o la prosecuzione del contratto a tempo determinato.
Sempre a vantaggio dei lavoratori precari si pone il primo comma, lett. C,
dell’articolo 1 del decreto, il quale stabilisce che i dipendenti hanno ora
centottanta giorni di tempo, e non più centoventi, per impugnare il contratto a
tempo determinato. Inasprito anche il costo dei licenziamenti illegittimi: infatti
sono aumentati del cinquanta percento gli indennizzi minimi e massimi previsti
nei contratti a tutele crescenti, passando dalle quattro e ventiquattro mensilità
contemplate nel Jobs Act, a sei e trentasei mensilità.
Il regime stringente dei contratti a termine si registra anche in ambito
contributivo, nel quale è previsto che ad ogni rinnovo della suddetta tipologia
contrattuale, anche in somministrazione ed anche al di sotto dei dodici mesi, i
versamenti contributivi sono aumentati di 0,5 punti percentuali, che vanno a
sommarsi al precedente 1,4 percento.
Gli articoli dal 5 all’8, invece, introducono importanti disposizioni riguardanti
le imprese destinatarie di aiuti di Stato, volte a contrastare le delocalizzazioni,
cioè i trasferimenti delle attività dal sito produttivo incentivato ad altro sito,
penalizzandole, laddove l’impresa sia dislocata in Stati non appartenenti
all’Unione Europea, entro cinque anni dal ricevimento dell’erogazione statale,
con la perdita dei benefit e con l’eventuale irrogazione di sanzioni
amministrative.
Norme particolarmente rigide sono previste anche in tema di lotta alla
ludopatia, vietando, con l’articolo 9 del d.l. n.87/2018, qualsiasi forma di
pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro,
comunque effettuata e su qualunque mezzo: l’inosservanza comporta sanzioni
pari al cinque percento del valore della pubblicità.
In ultimo, il decreto si dedica anche alla semplificazione fiscale, introducendo
con le disposizioni contemplate dagli articoli 10, 11 e 12, diverse misure con
riferimento soprattutto al “redditometro“, per il quale è prevista una totale
revisione, allo “spesometro“, la cui rettifica viene rinviata al 2019, e allo split
payment, con l’abolizione del’utilizzo di questo meccanismo per i
professionisti.
Una disposizione passata sicuramente sottotono è quella prevista nell’articolo 1
comma 3 del decreto dignità, il quale sancisce la non applicabilità dello stesso
decreto al pubblico impiego: questo ovviamente solleva problemi rilevanti, sia
circa l’impiego della manodopera, sia sulla flessibilità in uscita.
Il sopraccitato articolo, infatti, mantiene in vita due differenti versioni del d.lgs.
n.81/2015, novellato proprio dal d.l. n. 87/2018, il quale ha introdotto modifiche
relative al lavoro privato e ha lasciato intatta la disciplina prevista per il pubblico
impiego. Questo comporta che il dipendente che presta servizio presso la
Pubblica Amministrazione non potrà godere delle nuove vantaggiose
disposizioni circa il contratto a termine, in quanto per questi resteranno
inamovibili sia il rinnovo previsto fino ad un massimo di trentasei mesi con
cinque proroghe possibili, che l’impugnazione del licenziamento illegittimo, il
quale avrà necessariamente tempi più brevi, ossia i tradizionali centoventi giorni.
L’introduzione delle clausole per l’utilizzo del contratto a tempo determinato
invece resta garantita anche per l’impiegato pubblico, in quanto è prevista
obbligatoriamente all’interno dell’articolo 36 del d.lgs. n.165/2001, la
specificazione, da parte della P.A., delle motivazioni che hanno portato
all’adozione di suddetta fattispecie contrattuale.