Molto spesso la formazione, così come viene prescritta dall’art. 37 del decreto legislativo 81/08 e dall’Accordo Stato Regioni, risulta inadeguata poiché carente nella strutturazione dei programmi, della durata, dei contenuti e delle modalità di attuazione.
Si pensi alla formulazione stessa dei programmi che a scapito degli atteggiamenti autorizza a privilegiare la sfera delle conoscenze. Infatti risulta molto più semplice concentrarsi sulla trasmissione di contenuti che cercare di incidere sulla cultura delle persone. (basti pensare a chi padroneggia gli argomenti o a coloro i quali preparano soltanto delle slides da visualizzare in aula).
Inoltre bisogna tener conto del continuo evolversi del mondo del lavoro, delle diverse tipologie contrattuali e delle differenti modalità produttive che richiedono una capacità di risposta che dipende quasi integralmente dal possesso di strumenti aspecifici quali la competenza nel cogliere i segnali deboli e nell’effettuare collegamenti e deduzioni consapevoli. O meglio, è perlopiù legata alla capacità dei lavoratori di pensare autonomamente e flessibilmente. Occorre dunque una formazione che promuova la mindfullness cioè che induca a risvegliarsi da una vita vissuta in automatico, solleciti la sensibilità alle novità nelle esperienze quotidiane e faciliti l’acquisizione della resilienza cioè di quell’abilità intrinseca di un’organizzazione, di un sistema, ma anche di una persona a mantenere o riguadagnare uno stato dinamicamente stabile che consenta di continuare le proprie attività dopo un grave evento o in presenza di uno stress continuativo. Richiede soprattutto di essere no essere fragili.
Lavorare in ambiente 4.0 fa dunque emergere una necessità di competenze aspecifiche e di capacità di processare pensiero astratto che dovrebbero venire dalla formazione scolastica ma che essa dà in modo molto limitato. D’altra parte ci muoviamo in un contesto che ha mitizzato le competenze tecniche trascurando quelle più complessivamente umanistiche. Quelle cioè veramente abilitanti, che attrezzano a orientarsi nei contesti che cambiano e nelle realtà complesse. Su questo terreno il compito di supplenza da parte dell’azienda è problematico, quasi utopico, anche se alcuni imprenditori (a partire dallo storico Olivetti) hanno raccolto la sfida.
Per fare questo sarebbe opportuno ampliare il numero di ore della formazione generale, attualmente povera nei contenuti ed eccessivamente breve, e affidare a essa, oltre ai più specifici rudimenti relativi alla sicurezza, già presenti nell’attuale programma, il presidio delle competenze logiche generali e di quelle cognitivo relazionali.
Parte della formazione potrebbe in questo modo essere affidata ai preposti, meglio se più anziani. In questo modo si otterrebbero risultati pregevoli sia per le persone che per l’azienda. Riconoscerne l’esperienza dando il ruolo di formatori ai più anziani è gratificante e spesso garantisce all’azienda non solo la trasmissione delle competenze esplicite, ma anche di quelle implicite che frequentemente vanno perdute quando chi le possiede va in pensione. Insegnare inoltre induce gli aged a rileggere con occhio critico il proprio modus operandi e ad aggiornare le proprie mappe concettuali che altrimenti rischierebbero di diventare obsolete in un contesto in continuo cambiamento.
Occorrono, però, delle condizioni perché la formazione gestita in azienda dai dipendenti funzioni. Ovvero che chi se ne occupi
- veda formalizzato questo compito in termini di tempo dedicato e riconoscimento economico
- acquisisca le competenze necessarie, non solo in termini formali, con l’attuale, volenteroso, ma non sufficientemente incisivo corso di formazione formatori.
I formatori aziendali dovrebbero poi essere, almeno in parte del percorso, affiancati da formatori professionisti in grado di aiutarli a rielaborare cognitivamente e a estendere a paradigma di riferimento gli insegnamenti contingenti.